Un’analisi sul pregiudizio implicito nel racconto dei risultati scolastici.
Ogni estate, puntualmente, i dati sulla Maturità scatenano un dibattito. Non solo per il valore effettivo delle prove, ma anche — e forse soprattutto — per come vengono raccontati. L’articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 5 agosto 2025, dal titolo “Maturità, mille lodi in più del 2024”, rappresenta un caso emblematico di narrazione che, pur non esplicitandolo apertamente, suggerisce al lettore un sospetto: che gli studenti del Sud ottengano più facilmente i voti alti. E che quei 100 e lode — se distribuiti con una certa densità in Calabria, Puglia o Sicilia — abbiano un valore diverso rispetto a quelli assegnati altrove.
Il Mezzogiorno, leggiamo, “ha fatto incetta anche di ‘dieci e lode’”. Una frase apparentemente neutra, ma che diventa significativa se inserita in un contesto dove l’eccellenza scolastica del Sud viene spesso raccontata come un’anomalia statistica da spiegare — o peggio, da ridimensionare. Il sospetto aleggia, mai dichiarato ma costantemente insinuato: che in alcune regioni si voti “di manica larga”. La Calabria, con il 6,1% di 100 e lode, viene citata come caso simbolo, seguita da Puglia e Sicilia. Nessuna riflessione, però, sulla possibilità che — magari — questi ragazzi abbiano effettivamente studiato, sostenuti da famiglie e docenti in territori spesso penalizzati da carenze strutturali e risorse limitate.
Al contrario, il sottotesto sembra voler rafforzare un’idea preconcetta: se al Nord si ottengono risultati eccellenti, è merito; se al Sud, è sospetto.
L’articolo ignora anche un dato fondamentale: il meccanismo della Maturità è nazionale. Le prove scritte sono comuni, la seconda prova è disciplinare e valutata da una commissione mista, e i criteri di assegnazione dei voti sono regolati da precise griglie di valutazione. Se c’è un problema di uniformità, va affrontato in termini di sistema, non con insinuazioni geografiche.
È paradossale che proprio nel momento in cui si auspica una scuola più equa, inclusiva e capace di valorizzare i talenti ovunque si trovino, si continui a raccontare il successo degli studenti meridionali come qualcosa da giustificare.
Se invece di cercare il “bug” nel sistema lo si leggesse come un segnale — magari di resilienza, magari di riscatto — forse si riuscirebbe a costruire un dibattito più onesto, e meno infarcito di cliché.
Perché, se un 100 e lode ottenuto in un liceo del Sud è sempre da mettere in discussione, ma uno conquistato in un liceo milanese è prova di merito, allora il problema non è nella scuola. È nel modo in cui la raccontiamo.










